Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita – Federico Fellini
Le parole non sono solo suoni e informazione che circolano tra le persone e legano le persone l’una all’altra, sono una costruzione della realta’. Ci sono ormai scienze dello studio delle parole, se ne studiano la genesi, l’utilizzo e la frequenza per decifrare e capire la realta’ e la visione che di questa noi condividiamo socialmente. Cambiare le parole o costruirne di nuove ha sempre un intento creativo, o trasformativo della realta’. Come ci ricorda don Milani “Il padrone sa 1000 parole, tu ne sai 100; ecco perché lui è il padrone”. Le parole come potere, come concreta appropriazione della realta’.
Oggi il ministro Piantedosi in riferimento ai migranti raccolti dalle ONG nel mediterraneo che non hanno diritto a sbarcare nei porti italiani usa il termine “carico residuale”. Quelli che fino a pochi minuti prima erano uomini, umanita’ naufraga, naufraghi salvati dal mare, migranti in difficolta’ diventano un Carico oltretutto residuale.
Dal vocabolario carico “Che porta un peso, che è pieno di qualcosa” e residuale “Che costituisce residuo, rimanente, restante”, quindi un peso di cose che restano. Si crea un nuovo sillogismo per non assumersi la responsabilita’ di una scelta di fronte all’uomo che soffre. Si cambiano le parole per togliere i diritti. Prima di tutto il diritto di essere umani di soffrire. Di essere portatori di bisogni di una storia che si sta’ svolgendo nella tragedia della migrazione, nel naufragio di una vita, di una barca, di un progetto.
Quando le parole mirano a disumanizzare o solo a toglie dei diritti fondamentali alle persone ci si deve fermare. Non e’ solo una critica ad un azione politica, in un contesto complesso. Non e’ la negazione che di fronte ad una migrazione l’europa dovrebbe avere una posizione coesa. Ma e’ l’incapacita’ di accettare “la terminologia burocratica” e la modificazione della realta’ attraverso un immagine disumana di cio’ che umanamente sta’ accadendo nel mediterraneo.
In occasione della Giornata internazionale di lotta alla povertà (17 ottobre), Caritas Italiana divulga il suo 21° Rapporto su povertà ed esclusione sociale dal titolo “L’anello debole”. Il testo prende in esame le statistiche ufficiali sulla povertà e i dati di fonte Caritas, provenienti da quasi 2.800 Centri di Ascolto Caritas su tutto il territorio nazionale.
Record di poveri dopo il 2019, i giovani sono sempre piu’ poveri.
Le statistiche ufficiali. Nel 2021 la povertà assoluta conferma i suoi massimi storici toccati nel 2020, anno di inizio della pandemia da Covid-19. Le famiglie in povertà assoluta risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente).
L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65 (valore sotto il la media nazionale).
Bassa istruzione e disoccupazione caratterizzano le nuove poverta’,
Si rafforza nel 2021 la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione. Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7%; tra loro si contano anche persone analfabete, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. Nelle regioni insulari e del sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7% e al 75%.
Strettamente correlato al livello di istruzione è, inoltre, il dato sulla condizione professionale che racconta molto delle fragilità di questo tempo post pandemico. Nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati che passa dal 41% al 47,1%; parallelamente si contrae la quota degli occupati che scende dal 25% al 23,6%. In tal senso prevalgono, come di consueto le difficoltà legate a uno stato di fragilità economica, i bisogni occupazionali e abitativi; seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità), le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori.
E’ rotto l’ascensore chi e’ povero rimane povero e chi e’ nella fascia a rischio cade in poverta’
La povertà intergenerazionale. In Italia il raggio della mobilità ascendente risulta assai corto e sembra funzionare prevalentemente per chi proviene da famiglie di classe media e superiore; per chi si colloca sulle posizioni più svantaggiate della scala sociale si registrano invece scarse possibilità di accedere ai livelli superiori (da qui le espressioni “dei pavimenti e dei soffitti appiccicosi”, “sticky grounds e sticky ceilings”).
Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. In primis nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare).
Anche sul fronte lavoro emergono degli elementi di netta continuità. Più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio).
Rimanere in un contesto di poverta’ lede la propria autostima e le capacita’ per uscirne.
Emerge un quadro in cui ai fattori fondamentali che determinano la trasmissione della povertà (educativa, lavorativa ed economica), si aggiungono la dimensione psicologica (bassa autostima, sfiducia, frustrazione, traumi, mancanza di speranza e progettualità, stile di vita “familiare”), conseguenza di un vissuto lungamente esposto alla povertà e una più ampia dimensione socio-culturale (territorialità, contesto
familiare, individualismo, sfiducia nelle istituzioni e nella comunità, povertà culturale), che coinvolge tutta la società ma si amplifica nelle fasce di popolazione in situazione di disagio. L’ascolto dei direttori dei CFP Salesiani conferma l’impatto del Covid-19: per almeno quattro studenti su cinque, la pandemia ha influito significativamente nella pianificazione del loro futuro, soprattutto in termini negativi.
Importanza del Reddito di Cittadinanza ma non sufficiente c’e’ bisogno di riqualificazione professionale ed occupazione
il Reddito di Cittadinanza, è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%). Sarebbe quindi opportuno assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti. Accanto alla componente economica dell’aiuto vanno garantiti adeguati processi di inclusione sociale. Ma al momento una serie di vincoli amministrativi e di gestione ostacolano tale aspetto.
Circa l’11,8% dei lavoratori italiani sono poveri. È un fenomeno in aumento da tempo a causa soprattutto dell’indebolimento della legislazione sulla protezione dei rapporti nel mercato del lavoro: la pandemia lo ha acuito e esacerbato. Il Gruppo di lavoro costituito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha presentato le proprie proposte per affrontarlo.
Il 18 gennaio il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, e l’economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’OCSE, Andrea Garnero, hanno presentato la Relazione del Gruppo1 di lavoro (istituito con il Decreto Ministeriale n. 126 del 2021) su “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”.
Si tratta di un documento che analizza le cause all’origine della povertà lavorativa, con un focus sull’Italia, e avanza cinque proposte (con annessi specifici obiettivi) per contrastare il fenomeno. Di seguito riportiamo i principali contenuti.
Avere un lavoro non basta per evitare di cadere in povertà
Circa l’11,8% dei lavoratori italiani sono poveri e quello italiano è il dato più marcato degli Stati europei (dove, mediamente, i lavoratori poveri sono circa il 9,2%).
La Relazione degli esperti sottolinea come, in Italia, circa il 25% dei lavoratori percepisca una retribuzione inferiore al 60% della mediana e più di un lavoratore su dieci sia in condizione di povertà (vale a dire che vive in un nucleo familiare il cui reddito netto equivalente è inferiore al 60% della mediana).
Le proposte del Gruppo di lavoro per contrastare la povertà lavorativa
Nella formulazione delle proposte, il Gruppo di Lavoro si concentra sulle misure macroeconomiche volte a sostenere i redditi individuali e familiari. Ne derivano cinque proposte, che vanno considerate nel complesso, di seguito elencate.
1 Garantire minimi salari. Nel caso Italiano,
2 Aumentare il rispetto dei minimi salari attraverso una più efficace vigilanza documentale.
3 Introdurre un trasferimento rivolto esclusivamente a chi percepisce redditi da lavoro (in-work benefit). In Italia non è attualmente presente uno strumento specifico per integrare i redditi da lavoro (in inglese, in-work benefit).
4 Incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese.
5 Promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa a livello di Unione Europea.