Una risposta alla crisi del welfare. Gino Mazzoli

Chi sono i vulnerabili?

Costruire partecipazione nel tempo della vulnerabilità, Supplemento al n. 259/2012 di Animazione Sociale.

Se utilizziamo due semplici variabili (le risorse economiche – asse verticale – e quelle di rete – asse orizzontale) emerge una mappa dei ceti sociali completamente rivoluzionata rispetto a 20 anni fa, quando si potevano distinguere nettamente due aree: da un lato i cittadini indigenti, portatori di disagi evidenti; dall’altro lato i cittadini in grado di farcela da soli di fronte a difficoltà e imprevisti e, anche in assenza di consistenti risorse culturali ed economiche, dotati di un ragguardevole patrimonio di reti. Oggi abbiamo l’area degli emarginati che costituiscono il target tradizionale dei servizi sociali, con scarse risorse economiche e legami sociali scarsi o assenti (quadrante D); una seconda grande area composta da cittadini istruiti e benestanti con una funzione di traino e leadership – i promotori di coesione – e il buon vecchio ceto popolare, oggi perlopiù monogenerazionale anziano, con meno risorse economiche ma un’alta tenuta interna della famiglia. Questa seconda grande area (quadranti B + parte alta di C) ha da sempre fornito le risorse più importanti per l’imprenditività politica e sociale, ma va restringendosi sul piano numerico; una terza area composta dal nuovo ceto popolare immigrato (quadrante C in basso) che ha buone reti familiari e in genere una visione più ottimistica del futuro rispetto a quella degli autoctoni; un’ultima area, quella dei nuovi vulnerabili (quadrante A) di cui abbiamo parlato prima, caratterizzata da legami sociali deboli e con la tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità, che è a rischio di precipitare nell’area della marginalità.

Al riguardo basta fare “due conti demografici in tasca” alle amministrazioni locali per mostrare la portata di questo cambiamento. Proviamo a immaginare un comune di 10.000 abitanti. L’area dei cosiddetti “marginali cronici” si attesta mediamente intorno all’1% della popolazione. Se il raddoppio di quest’area a causa della crisi costituisce un passaggio dall’1 al 2% (da 100 a 200) non suscettibile di produrre smottamenti tellurici nella percezione collettiva della povertà, il “salto” da 0 al 20-30% di persone (2000 o 3000) dall’area della vulnerabilità a quello della povertà conclamata significherebbe una vera e propria rivoluzione epocale nella comunità locale.

Intercettare i vulnerabili oggi, quando hanno bisogno prevalentemente di ascolto e di aiuto per ri-orientare lo stile di vita, non comporta l’erogazione di contributi, ma la predisposizione di risorse -tempo di operatori e volontari. Intercettarli domani, quando saranno necessari soprattutto sussidi economici, renderà impossibile l’intervento. Inoltre il ceto medio vulnerabile oggi è ancora ricco di risorse per gestire i problemi che l’attraversano. Questi cittadini vanno aiutati a trasformare una posizione meramente rivendicativa in un’altra capace di co-generare, insieme a istituzioni e terzo settore, nuove risposte (nuovi servizi) da progettare e gestire in modo partecipato.

La crisi può essere vista come una grande opportunità”. In che modo?

Se la radice della crisi che ci attraversa è culturale (e dunque psico-sociale), il tema che ci propone è quello di un ri-orientamento del nostro stile di vita. Aumentano gli abitanti del pianeta e c’è una torta identica da spartire. Non siamo una nazione destinata a rimanere tra quelle che guideranno lo sviluppo, perciò dobbiamo attrezzarci a vivere con meno. Dal momento che viviamo in una società bulimica che ci dopa di opportunità, questa nuova condizione si presenta come un’opportunità per modificare in senso più sobrio il nostro stile di vita. Poiché, però, il basso continuo della nostra società continua e continuerà a ripeterci che tutto è a portata di mano -basta passare al low cost e agli acquisti rateali-, la sfida non è semplice e non si vince con un discorso pronunciato da qualche balcone o con un documento ben scritto.

Serve un fare concreto e locale intorno a problemi circoscritti sentiti come utili dalle persone a partire dal quale: ricavare ipotesi più ampie; creare una connessione tra tanti “fare” locali appartenenti a province, regioni e nazioni diverse (di locale si può anche morire); investire nello sviluppo in forma diffusa di competenze per gestire questi processi partecipativi nell’area del welfare; individuare nuovi criteri di valutazione del lavoro sociale quali, ad esempio, la capacità di generare nuove risorse -umane, non solo finanziarie- rispetto a quelle già date, la capacità di coinvolgere cittadini che non appartengono al circuito dei soliti noti, la capacità di allestire nuovi servizi in collaborazione coi cittadini e col terzo settore a costi estremamente contenuti.

Sorgente: Spazio Comune: una risposta alla crisi del welfare. Intervista a Gino Mazzoli, coordinatore nazionale di Spazio Comune

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